Monza, 2019-01-22
Circolare n. 17
A tutto il personale
Oggetto: Documento “A ottanta anni dalle leggi razziali” dell’accademia dei Lincei
A ottanta anni dalle leggi razziali
Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della promulgazione nel
nostro Paese delle leggi razziali. «Sono passati tanti anni, ma la vergogna
rimane». Queste parole, dette nel 1998 dal Presidente della Repubblica Scalfaro, sintetizzano nel modo migliore il giudizio su una delle pagine più aberranti e vergognose della storia dell’Italia. Per opportunismo politico o per dipendenza ideologica l’Italia si trasformò in un paese razzista. Tanti uomini di cultura videro nell’antisemitismo di Stato una maniera per fare carriera, accumulare denaro, sfogare rancori e invidie. La maggior parte degli italiani considerò le leggi razziali ingiuste, ma non protestò, adattandosi alla volontà del governo, come fosse in preda ad un’ipnosi di massa.
Questo tragico evento merita di essere non solo ricordato, ma anche
raccontato alle giovani generazioni. Va loro spiegato che le leggi razziali sono un episodio orribile della nostra storia, non solo per le loro conseguenze nefaste, ma anche perché hanno clamorosamente contraddetto lo stesso senso del diritto, che da presidio degli uomini contro la violenza è stato trasformato in strumento stesso della violenza.
Vanno riportati alla memoria i provvedimenti che, in un crescendo
impressionante, il regime varò nel 1938. Quelli legislativi furono immessi nel
testo di cinque Regi Decreti Legge, tutti approvati tra il 15 settembre e il 15
novembre 1938 e convertiti in legge alla Camera e al Senato senza discussione né modifiche. Si è arrivati addirittura al punto di definirli la Magna Carta
dell’antiebraismo giuridico in Italia.
Ogni data della loro emissione rappresenta “un giorno della vergogna”: il
14 luglio fu pubblicato il Manifesto della razza, il cui art. 9 dice che «gli ebrei
non appartengono alla razza italiana»; il 19 venne istituita la Direzione generale per la demografia e la razza, meglio conosciuta come “demorazza”; il 9 agosto si ordinò ai Provveditori scolastici di escludere tutti i supplenti ebrei; il 17 fu notificato ai Prefetti di sostituire in ogni carica pubblica i non appartenenti alla razza italiana, il 22 si diede inizio al censimento degli ebrei italiani gestito, appunto, dalla “demorazza”; il 2 e 3 settembre il Governo espulse gli ebrei dalla scuola: non ce ne dovevano più essere fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra gli alunni di tutti gli istituti pubblici. Nello stesso giorno si proibì di risiedere in Italia a tutti gli ebrei stranieri e si revocò la cittadinanza italiana a quelli che l’avevano ottenuta da meno di venti anni. Il 6 ottobre il colpo finale del Gran Consiglio: il divieto di matrimonio misto, il divieto per i dipendenti degli enti pubblici di sposarsi con “donne straniere”, il divieto per gli ebrei di essere iscritti al partito fascista, di possedere aziende con più di 100 dipendenti e più di 50 ettari di terreno, di assumere in servizio personale ariano, di prestare il servizio militare.
Nel novembre dello stesso anno l’art. 1 del Libro I del Progetto del nuovo codice civile fu riscritto e ampliato in modo da mutarne profondamente il significato. Il testo modificato divenne: «La capacità giuridica si acquista al momento della nascita…Le limitazioni di essa derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite dalle leggi speciali». Questa riscrittura del testo iniziale – cancellata poi nel 1944 con uno dei primi provvedimenti legislativi dopo la caduta del regime – era funzionale alla solenne introduzione del principio dell’ineguaglianza di possesso della capacità giuridica. Al centro non vi era più l’uomo con i suoi diritti naturali, bensì lo Stato con le sue leggi a limitarne la capacità giuridica.
È dall’emissione di tali leggi e provvedimenti che hanno avuto inizio la
nuova ghettizzazione e la persecuzione degli ebrei, come l’hanno raccontate in
numerosi libri, splendidi e commoventi, Primo Levi, Rosetta Loy, Giorgio
Bassani, Liliana Segre, Liana Millu, Giacoma Limentani, Virginia Nathan e altri ancora. Gli effetti sono scolpiti nelle seguenti parole – che a qualcuno sono sembrate troppo blande – di Renzo De Felice: «I danni economici, le carriere spezzate possono essere risarciti, le ferite col tempo possono cicatrizzarsi, il dolore stesso per i congiunti morti può lenirsi davanti alla considerazione generale dell’immanità della tragedia abbattutasi sull’umanità intera. Ciò che non può essere risarcito, cicatrizzato, lenito è il dramma morale di cittadini italiani che erano tali, si sentivano tali, volevano essere tali e nel giro di poche settimane si videro negato tutto ciò senza motivo alcuno».
Non si può dire che oggi siano cessati le professioni di negazionismo,
i comportamenti che giustificano e minimizzano la stessa esistenza
dell’Olocausto e gli atti di razzismo. Ciò nonostante, pur considerando il
negazionismo una vergogna intellettuale e morale, non sembra opportuna la
proposta, avanzata anche in sedi autorevoli, di una sua incriminazione. Sarebbe un segno preoccupante di debolezza della nostra società se, per contrastare e sconfiggere il negazionismo, si avesse bisogno di ricorrere a strumenti penali, non credendo nell’esercizio della libertà e della ragione. Bisogna affidarsi a un’opera di sensibilizzazione culturale e di consapevolezza civile; un’opera non più rinviabile in un momento, come l’attuale, in cui assistiamo drammaticamente, non solo nel nostro Paese, al rigurgito di fenomeni razzisti, testimoniato da numerosi gravi episodi di violenza sia verso gli ebrei che verso altre etnie.
È in questa stessa ottica che andrebbe data una risposta negativa anche
alla proposta di eliminare il termine “razza” dal testo dell’art. 3 della Costituzione, che prevede che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizione personale e sociale.
Coloro che ne sostengono l’eliminazione ricordano giustamente che la
scienza genetica ha, infatti, ormai concluso, in modo chiaro e netto, che la razza non esiste come categoria immutabile nel tempo.
Se, invece, partiamo dall’ovvio presupposto che la Costituzione consiste
in una serie di norme che, guardando al passato, indicano nuovi percorsi da
seguire, appare chiaro che l’art. 3, nel fissare il divieto di discriminazione in
ragione della razza di appartenenza, ha posto le basi perché il legislatore
capovolgesse la situazione precedente. Il che significa che detto divieto si traduce nell’obbligo giuridico di contrastare negli anni a venire l’utilizzazione del termine nelle accezioni negative assunte in passato e che potrebbero essere assunte in futuro. Un esempio di questa legislazione attuativa dell’art. 3 ci è offerto dalla legge n. 205 del 1993, la c.d. legge Mancino, che ha sanzionato penalmente la discriminazione e la violenza di natura razziale, etnica, nazionale e religiosa.
In questa interpretazione evolutiva, la permanenza del divieto di discriminazione costituisce al momento attuale la migliore barriera contro le iniziative dirette a recuperare nazionalismi ormai superati e a costruire status giuridici speciali a difesa di un’italianità che, contro ogni buon senso, si ritiene minacciata dal rapporto con soggetti portatori di valori e culture diversi. Come ha detto Paolo Grossi quando era Presidente della Corte costituzionale, «La razza non esiste, ma esistono i razzismi. E finché resta viva questa perversione la parola razza deve rimanere nella Carta…Mantenere il termine razza nella Costituzione significa dire: guardate che il razzismo è una malattia che esiste ancora. E finché esistono questi fenomeni io di quella parola ho necessità». Mantenerla nel testo della Costituzione ha ancora oggi la funzione di un monito e di un segnale permanente.